sabato 30 novembre 2013

1028 - INCHIESTA - Un clima rivoluzionario In copertina La crescita a ogni costo sta uccidendo il pianeta. Sulla base dei loro studi, anche i climatologi sono arrivati alla conclusione che il sistema economico capitalista non è più sostenibile

N
el dicembre  del  2012
l’esperto di sistemi com-plessi Brad Werner, con
i  suoi  capelli  rosa,  si  è
fatto strada tra i 24mila
studiosi di scienze della
Terra e dello spazio al convegno dell’Ameri-can geophysical union che si tiene ogni an-no a San Francisco. All’evento c’erano nomi
importanti, come Ed Stone, del progetto
Voyager della Nasa, che ha parlato di una
nuova pietra miliare sulla strada per lo spa-zio interstellare, e il regista James Came-ron, che ha raccontato le sue avventure in
sommergibile negli abissi del mare.
Ma la conferenza che ha fatto più scal-pore è stata quella di Werner, intitolata “La
Terra è f ***uta?” (il titolo intero era: “La
Terra è f ***uta? La futilità dinamica della
gestione ambientale globale e le possibilità
di garantire la sostenibilità attraverso l’azio-ne diretta degli attivisti”). In piedi di fronte
alla platea, il geoisico dell’Università della
California a San Diego ha risposto alla do-manda usando un modello computerizzato.
Lo scienziato ha parlato di limiti dei sistemi,
perturbazioni, dissipazione, attrattori, bi-forcazioni e altre cose per lo più incompren-sibili a chi non è esperto di teoria dei sistemi
complessi. Ma la morale era chiara: il capi-talismo globale ha reso lo sfruttamento in-tensivo delle risorse così rapido, convenien-te e illimitato che per reazione i “sistemi
geoumani” stanno diventando pericolosa-mente instabili. Messo sotto pressione da
un giornalista che chiedeva una risposta
chiara alla domanda “siamo f ***uti?”, Wer-ner ha messo da parte i termini tecnici e ha
risposto: “Più o meno”.
Tuttavia una dinamica del suo modello
ofriva qualche speranza. Werner l’ha dei-nita “resistenza”: i movimenti di “gruppi o
individui” che “adottano un certo insieme
di dinamiche che non si integrano nella cul-tura capitalistica”. Nel sommario della sua
presentazione si legge che questo fattore
comprende “l’azione diretta ambientalista,
la resistenza proveniente dall’esterno della
cultura dominante, come nelle manifesta-zioni di protesta e nei sabotaggi compiuti
dalle popolazioni indigene, dai lavoratori,
dagli anarchici e da altre organizzazioni di
attivisti”.
Di solito ai convegni scientiici non si
lanciano appelli alla resistenza politica di
massa e tanto meno all’azione diretta e al
sabotaggio. Ma a dire il vero Werner non ha
invitato a fare niente del genere: si è limita-to a osservare che le rivolte di massa (un po’
come il movimento abolizionista, quello
per i diritti civili o Occupy Wall street) rap-presentano l’elemento di “frizione” che con
più probabilità sarà in grado di rallentare un
meccanismo economico sempre più fuori
controllo. Come sappiamo, ha osservato lo
scienziato, in passato i movimenti sociali
hanno “esercitato un’inluenza straordina-ria sull’evoluzione della cultura dominan-te”. Quindi è ragionevole afermare che “se
pensiamo al futuro della Terra e della no-stra relazione con l’ambiente, dobbiamo
inserire la resistenza nel quadro di questa
dinamica”. Non si tratta, ha afermato Wer-ner, di un’opinione, ma “di un problema
geoisico”.
In manette
Molti scienziati sono stati spinti dai risultati
delle loro ricerche a scendere in piazza e a
passare all’azione. Fisici, astronomi, medici
e biologi si sono schierati in prima linea nel-le battaglie contro le armi nucleari, l’ener-gia atomica, la guerra, la contaminazione
chimica e il creazionismo. Poi nel novem-bre del 2012 Nature ha pubblicato un edito-riale del inanziere e ilantropo ambientali-sta Jeremy Grantham in cui si invitavano gli
scienziati a seguire questa tradizione e a
“farsi  arrestare  se  necessario”,  perché  il
cambiamento climatico “non è solo la crisi
della nostra vita: è anche la crisi dell’esi-stenza della nostra specie”.
Alcuni scienziati non hanno bisogno di
farsi convincere. James Hansen, il padre
della climatologia moderna, è un attivista
formidabile ed è stato arrestato almeno cin-que o sei volte per aver opposto resistenza
allo spianamento delle vette montuose per
l’estrazione di carbone e alla costruzione di
oleodotti  per  le  sabbie  bituminose
(quest’anno lo scienziato ha perino lasciato
il lavoro alla Nasa per dedicare più tempo
alla militanza). Due anni fa, quando sono
stata arrestata davanti alla Casa Bianca du-rante una manifestazione contro l’oleodot-to per sabbie bituminose Keystone Xl, una
delle 166 persone inite quel giorno in ma-nette era il glaciologo Jason Box, un esperto
di fama mondiale dello scioglimento dei
ghiacci della Groenlandia. “Se non ci fossi
andato avrei perso la mia autostima”, mi ha
detto allora Box, aggiungendo che “in que-sto caso votare non basta. Ho bisogno di
essere anche un cittadino”.
Questa reazione è lodevole, ma quello
che sta facendo Werner con i suoi modelli è
diverso. Lo scienziato non sta dicendo che
le sue ricerche lo hanno spinto a passare  ll’azione per fermare una particolare leg-ge: le sue ricerche dimostrano che il nostro
modello economico mette a rischio la stabi-lità ecologica e che contrastare questo mo-dello (attraverso l’opposizione di massa) è il
modo migliore di evitare la catastrofe. Sono
afermazioni drastiche, ma Werner non è
solo. Lo studioso fa parte di un gruppo ri-stretto ma sempre più autorevole di scien-ziati che hanno fatto ricerche sulla destabi-lizzazione dei sistemi naturali e sono arri-vati a conclusioni rivoluzionarie. A chiun-que nutra in cuor suo un impulso di ribellio-ne e abbia sognato di rovesciare l’attuale
ordine economico per introdurne uno che
non spinga al suicidio i pensionati italiani,
questo lavoro dovrebbe risultare particolar-mente interessante. Perché dimostra che
l’aspirazione a disfarsi di questo sistema
spietato per sostituirlo con uno nuovo (e
magari, lavorandoci molto, anche migliore)
non è più questione di orientamento ideo-logico, ma è piuttosto una necessità per la
sopravvivenza della specie umana.
Alla  testa  di  questo  nuovo  gruppo  di
scienziati rivoluzionari c’è uno dei più im-portanti climatologi britannici: Kevin An-derson, il vicedirettore del Tyndall centre
for climate change research. Rivolgendosi
a chiunque, dal ministero britannico dello
sviluppo internazionale al consiglio comu-nale di Manchester, Anderson ha dedicato
più  di  dieci  anni  al  paziente  tentativo  di
spiegare a politici, economisti e attivisti le
implicazioni degli ultimi risultati della cli-matologia. Usando un linguaggio chiaro e
comprensibile, lo scienziato ha deinito una
serie rigorosa di passi da compiere per ri-durre le emissioni in modo da mantenere
l’aumento della temperatura globale al di
sotto dei due gradi, un obiettivo che secon-do molti governi dovrebbe prevenire la ca-tastrofe. Ma negli ultimi anni gli articoli e le
conferenze di Anderson sono diventati più
allarmanti. Nei suoi interventi – intitolati
per esempio “Mutamento climatico: al di là
del pericolo, numeri brutali e tenui speran-ze” – lo studioso sottolinea che le possibilità
Superstiti in attesa di aiuti in un villaggio a nord di Tacloban, Filippine, 17 novembre 2013
44Internazionale 1028 | 29 novembre 2013
In copertina
di mantenere le temperature entro i limiti
di  sicurezza  si  stanno  riducendo  rapida-mente.  Insieme  alla  collega  Alice  Bows,
un’esperta del Tyndall centre che si occupa
di mitigazione del clima, Anderson osserva
che abbiamo perso tanto tempo tra stalli
politici e misure deboli per la gestione del
clima (mentre i consumi e le emissioni glo-bali  s’impennavano)  che  ora  dovremmo
fare tagli così drastici da mettere in discus-sione la logica stessa che assegna la massi-ma priorità alla crescita del pil.
Anderson  e  Bows  ci  comunicano  che
l’obiettivo tanto citato della mitigazione di
lungo periodo (ridurre dell’80 per cento le
emissioni rispetto ai livelli del 1990 entro il
2050) è stato indicato per motivi di pura
convenienza politica e non poggia su “nes-suna base scientiica”. Il fatto è che sul cli-ma non esercita un impatto solo quello che
emettiamo oggi e domani, ma le emissioni
cumulative che con il tempo si raccolgono
nell’atmosfera. Inoltre, gli scienziati ci av-vertono che concentrandoci su un obiettivo
distante trentacinque anni (invece di pen-sare a quello che si può fare per ridurre le
emissioni di anidride carbonica in modo
netto e immediato) rischiamo seriamente
che le emissioni continuino ad aumentare
per anni, mettendoci in una posizione inso-stenibile per il resto del secolo.
Per questo Anderson e Bows sostengo-no che se i governi dei paesi sviluppati han-no  davvero  intenzione  di  raggiungere
l’obiettivo concordato a livello internazio-nale  di  mantenere  l’innalzamento  della
temperatura al di sotto dei due gradi centi-gradi e se vogliono che i tagli rispettino un
principio di equità (secondo cui in sostanza
i paesi che hanno rilasciato anidride carbo-nica per buona parte degli ultimi due secoli
dovranno  ridurre  le  emissioni  prima  di
quelli in cui più di un miliardo di persone
vive ancora senza l’elettricità), allora i tagli
dovranno andare molto più a fondo e si do-vranno fare molto prima.
Per ottenere anche solo una possibilità
del 50 per cento di contenere il riscalda-mento climatico entro i due gradi (che, co-me avvertono Anderson, Bows e molti altri
scienziati, implica già una serie di disastri
climatici), i paesi industrializzati dovranno
ridurre le loro emissioni di gas serra di circa
il 10 per cento all’anno in da subito. Ma An-derson e Bows si spingono anche più in là,
facendo notare che quest’obiettivo non po-trà essere realizzato con le misure di mode-sta tassazione delle emissioni di anidride
carbonica o con le soluzioni di tecnologia
verde proposte in genere dalle grandi orga-nizzazioni ambientaliste. Queste strategie
non bastano: una riduzione del 10 per cento
all’anno è un fenomeno praticamente sen-za precedenti da quando abbiamo comin-ciato ad alimentare l’economia con il car-bone. In efetti, un calo superiore all’1 per
cento all’anno “è stato associato storica-mente solo alle recessioni economiche o ai
sovvertimenti politici”, spiega l’economista
Nicholas Stern nel suo rapporto sui cambia-menti climatici realizzato nel 2006 per il
governo britannico.
Neanche in seguito al crollo dell’Unione
Sovietica ci sono state riduzioni di questa
durata e intensità (gli ex stati sovietici han-no registrato in media un calo del 5 per cen-to all’anno per un periodo di dieci anni). Né
si sono osservati fenomeni simili dopo il
crollo di Wall street nel 2008 (nei paesi più
ricchi c’è stata una riduzione del 7 per cento
circa tra il 2008 e il 2009, ma le loro emis-sioni sono riprese a pieno ritmo
nel 2010 e intanto quelle della Ci-na e dell’India hanno continuato
a  crescere).  Solo  subito  dopo  il
grande crollo del 1929, si appren-de dai dati storici del Carbon dio-xide information analysis centre, negli Sta-ti Uniti le emissioni diminuirono per alcuni
anni a un ritmo superiore al 10 per cento
all’anno. Ma quella è stata la peggior crisi
economica dell’epoca moderna.
Se vogliamo evitare disastri di quell’en-tità e raggiungere gli obiettivi di riduzione
delle emissioni indicati dagli scienziati, il
taglio della produzione di anidride carboni-ca dovrà essere gestito, come scrivono An-derson e Bows, con prudenza e attraverso
“strategie drastiche e immediate di decre-scita negli Stati Uniti, nell’Unione europea
e in altri paesi ricchi”. Questo non sarebbe
un problema se non fosse che il nostro siste-ma economico venera la crescita del pil più
di qualunque altra cosa, senza riguardo per
le conseguenze umane o ecologiche, e che
la classe politica neoliberista si è sottratta a
qualunque  responsabilità  (dal  momento
che il mercato è il genio invisibile a cui va
aidato tutto il resto). Secondo Anderson e
Bows, quindi, c’è ancora tempo per evitare
un riscaldamento catastroico, ma non con
le regole del capitalismo. È forse il miglior
argomento che sia mai esistito per sostene-re il cambiamento di queste regole.
Diicile ma fattibile
In un saggio del 2012 uscito su Nature Cli-mate Change, un’autorevole rivista scienti-ica, Anderson e Bows hanno lanciato qual-cosa di simile a una sida, accusando molti
colleghi di scarsa trasparenza sulle trasfor-mazioni che il cambiamento cli-matico impone all’umanità. Vale
la pena di citare i due per esteso:
“Nell’elaborare previsioni sulle
emissioni, gli scienziati minimiz-zano ripetutamente e gravemen-te le implicazioni delle loro analisi. Quando
si tratta di evitare l’aumento della tempera-tura di due gradi, ‘impossibile’ diventa ‘dif-icile ma fattibile’ e ‘urgente e drastico’ si
trasforma in ‘impegnativo’. Il tutto per pla-care il dio dell’economia (o, per la precisio-ne, della inanza). Per esempio, per rispet-tare il limite di riduzione delle emissioni
issato dagli economisti, si parte dal presup-posto che le emissioni hanno toccato picchi
‘impossibilmente’ precoci e si abbracciano
idee ingenue sulle tecnologie ‘avanzate’ e le
infrastrutture a bassa produzione di anidri-de carbonica. Ma l’aspetto più preoccupan-te è che mentre gli stanziamenti per il taglio
delle emissioni si riducono, la geoingegne-ria è proposta sempre più spesso come mez-zo per garantire che i diktat degli economi-sti non siano mai messi in dubbio”.
Per sembrare ragionevoli negli ambien-ti  economici  neoliberisti,  insomma,  gli
scienziati tengono gravemente in sordina i
risvolti delle loro ricerche. Ad agosto An-derson si è espresso in modo ancora più
esplicito e ha scritto che ormai la linea adot-tata  mirava  al  cambiamento  graduale.
“Forse nel 1992, all’epoca della conferenza
di Rio, o anche all’inizio del nuovo millen-nio, contenere il riscaldamento climatico
entro i due gradi sarebbe stato possibile at-traverso una trasformazione graduale in-terna al sistema politico ed economico do-minante. Ma il mutamento climatico è un
fenomeno cumulativo. Ora, nel 2013, i pae-si (post)industriali, che hanno alte emissio- ni di gas serra, si trovano di fronte a una
prospettiva molto diversa. Il nostro sperpe-ro continuato e collettivo di anidride carbo-nica  ha  annientato  tutte  le  possibilità  di
‘trasformazione graduale’ oferte dal pre-cedente budget di anidride per il conteni-mento del riscaldamento entro i due gradi.
Oggi, dopo vent’anni di bluf e menzogne, il
budget che ci resta impone un cambiamen-to  rivoluzionario  del  sistema  politico  ed
economico dominante”.
Probabilmente non dovremmo sorpren-derci del fatto che alcuni climatologi siano
un po’ spaventati dalle conseguenze drasti-che dettate dalle loro stesse ricerche. Que-sti studiosi si occupavano quasi tutti sem-plicemente di misurare carote di ghiaccio,
di elaborare modelli climatici globali e di
studiare l’acidiicazione degli oceani. Ma a
un certo punto, per citare l’esperto austra-liano di clima Clive Hamilton, hanno sco-perto che “stavano involontariamente de-stabilizzando l’ordine politico e sociale”.
Molti altri, tuttavia, sono consapevoli
della natura rivoluzionaria della climatolo-gia. Per questo alcuni governi che avevano
deciso di mettere da parte i loro impegni sul
clima e di continuare a produrre anidride
carbonica sono stati costretti a usare meto-di ancora più scellerati per ridurre al silen zio e intimidire gli scienziati del loro paese.
Nel Regno Unito questa strategia è sempre
più  evidente.  Di  recente  Ian  Boyd,  capo
consulente  scientifico  del  ministero
dell’ambiente, dell’alimentazione e degli
afari rurali, ha scritto che gli scienziati do-vrebbero evitare di “afermare che deter-minate misure politiche sono giuste o sba-gliate” e dovrebbero esprimere le loro opi-nioni “collaborando con consulenti interni
(come me) e ponendosi come voci della ra-gione e non del dissenso”.
un into funerale
Se volete sapere dove porterà tutto questo,
pensate a quello che sta succedendo in Ca-nada, il paese dove abito. Il governo conser-vatore di Stephen Harper è stato così eica-ce  nel  suo  tentativo  di  imbavagliare  gli
scienziati e di bloccare i progetti di ricerca
più importanti, che nel luglio del 2012 un
paio di migliaia di ricercatori e comuni cit-tadini ha celebrato un into funerale sulla
collina del parlamento a Ottawa per annun-ciare “la morte dei fatti scientiici”. Sui loro
cartelli era scritto: “Niente scienza, niente
fatti, niente verità”.
Ma la verità sta venendo a galla comun-que. Per sapere che la ricerca del proitto e
della crescita sta destabilizzando la vita sul-la Terra non bisogna più leggere le riviste
scientiiche. I primi segnali sono di fronte ai
nostri occhi. E sempre più persone stanno
reagendo di conseguenza con un numero
incalcolabile di azioni di resistenza grandi e
piccole: bloccando le attività di estrazione
basate sul fracking a Balcombe, in Inghilter-ra, interferendo con i preparativi per le tri-vellazioni nell’Artico in acque russe (pren-dendo rischi enormi per la propria vita) o
denunciando  le  aziende  che  lavorano  le
sabbie bituminose per aver violato la sovra-nità delle popolazioni indigene.
Nel modello elaborato da Brad Werner è
questa la “frizione” necessaria a rallentare
le forze di destabilizzazione: il grande atti-vista  per  la  salvaguardia  del  clima  Bill
McKibben li deinisce “anticorpi” che si at-tivano per contrastare la “febbre alta” del
pianeta. Non è una rivoluzione, ma è un ini-zio. E potrebbe farci guadagnare il tempo
che serve per trovare un modo di vivere sul
pianeta senza restare troppo f ***uti. u fp



Rivolte
verdi
Michael T. Klare, Tomdispatch, Stati Uniti
Come dimostra l’esperienza di
Fukushima, in futuro sempre
più movimenti di protesta
nasceranno intorno a questioni
legate al clima e all’ambiente




capi di governo dovrebbero stare
in guardia dopo che il tifone più
potente della storia ha ridotto in
ginocchio le Filippine e dopo che
una  devastante  “apocalisse  at-mosferica” ha sofocato la città
cinese di Harbin con l’inquinamento delle
centrali a carbone. Anche se non è possibile
ricondurre  con  certezza  assoluta  questi
episodi al crescente impiego di combusti-bili fossili e al cambiamento climatico, que-ste catastroi, a quanto ci dicono gli scien-ziati, diventeranno parte integrante della
vita del pianeta a causa delle trasformazio-ni prodotte dal consumo intensivo di com-bustibili ad alta emissione di anidride car-bonica. Se, come sta succedendo, i governi
di  tutto  il  mondo  prolungheranno  l’era
dell’anidride carbonica e raforzeranno la
dipendenza  da  combustibili  fossili  “non
convenzionali” come le sabbie bituminose
e il gas da argille, aspettiamoci di inire nei
guai. O meglio ancora: aspettiamoci una
serie di insurrezioni popolari che porteran-no a una rivoluzione per l’energia pulita.
Nessuno può prevedere il futuro, ma è
possibile farsi un’idea dei rivolgimenti che
ci attendono pensando agli avvenimenti
del presente.  Via  via  che  la  popolazione
prende coscienza del cambiamento clima-tico e che le alluvioni, gli incendi, le siccità
e le tempeste sempre più violente diventa-no una componente inevitabile della vita
quotidiana, un numero crescente di perso-ne aderisce a organizzazioni ambientaliste
e partecipa ad azioni di protesta sempre più
clamorose. È probabile che prima o poi i
capi di governo dovranno afrontare diver-se rivolte popolari, e alla ine saranno co-stretti ad apportare modiiche sostanziali
alla politica energetica. In efetti è possibile
immaginare che una rivoluzione per l’ener-gia pulita possa scoppiare in una zona del
mondo e poi allargarsi a macchia d’olio alle
altre. Dato che il cambiamento climatico
inliggerà danni sempre più gravi alle per-sone, è plausibile che l’impulso a ribellarsi
si accentui su scala mondiale. Le circostan-ze potranno variare, ma lo scopo principale
di queste insurrezioni sarà quello di mette-re ine al dominio dei combustibili fossili e
di intensiicare gli investimenti nelle fonti
di energia rinnovabili. E se questi movi-menti avranno successo in un luogo, inco-raggeranno altre persone a imitarli.
Una simile ondata di rivolte consecuti-ve non sarebbe senza precedenti. Nei primi
anni duemila, per esempio, in diversi paesi
dell’ex Unione Sovietica un governo dopo
l’altro è stato spazzato via da quelle che so-no  passate  alla  storia  come  “rivoluzioni
colorate”: insurrezioni populiste contro i
vecchi regimi autoritari. Si fanno rientrare
in questo fenomeno la “rivoluzione delle
rose”  in  Georgia  (2003),  la  “rivoluzione
arancione” in Ucraina (2004) e la “rivolu-zione dei tulipani” in Kirghizistan (2005).
Nel 2011 una serie di proteste simili c’è sta-ta in Nordafrica, culminando in quella che
è stata chiamata “primavera araba”.
Come  nei  casi  precedenti,  anche  in
quello di una “rivoluzione verde” diicil-mente l’impulso verrà da una campagna
politica strutturata e con dei leader chiara-mente identiicabili. Con ogni probabilità il
movimento nascerà in modo spontaneo
quando le catastroi causate dal cambia-mento climatico provocheranno un’esplo-sione di rabbia collettiva. Una volta inne-scate, però, le proteste metteranno sotto
pressione i governi, pretendendo un cam-biamento profondo sull’energia e sul clima.
In questo senso tutte le sollevazioni, qua-lunque forma assumano, si dimostreranno
“rivoluzionarie”, dal momento che punte-ranno a cambiamenti politici così grandi da
mettere in dubbio l’esistenza stessa dei go-verni in carica o da costringerli a decidere
trasformazioni radicali.
I segni di questo processo si possono già
osservare. Si pensi alle proteste ambienta-liste scoppiate in Turchia a giugno. Anche
se erano nate intorno a un problema di sca-la decisamente più ridotta rispetto alla de-vastazione planetaria causata dal cambia-mento climatico, per un certo periodo han-no rappresentato una grave minaccia per il
primo ministro Recep Tayyip Erdoğan e
per il suo partito. Alla ine il governo è riu-scito a reprimere le manifestazioni, ma la
reputazione  di  islamico  moderato  di
Erdoğan è stata compromessa gravemen-te.
Come molte rivoluzioni, la ribellione
turca è cominciata in sordina: il 27 maggio
2013 un piccolo gruppo di ambientalisti ha
bloccato le ruspe inviate dal governo per
radere al suolo il parco Gezi, una minuscola
oasi verde nel cuore di Istanbul, e fare spa-zio alla costruzione di un centro commer-ciale di lusso. Il governo ha ordinato alle
truppe antisommossa di sgombrare l’area,
ma la decisione ha fatto infuriare molti tur-DAN KITwOOD (GETTy ImAGES)
 Internazionale 1028 | 29 novembre 2013 47
chi e ha spinto decine di migliaia di persone
a occupare la vicina piazza Taksim. Questa
mossa ha portato a sua volta a un giro di vi-te ancora più brutale e quindi a enormi ma-nifestazioni a Istanbul e in tutto il paese. Le
proteste di massa sono scoppiate in settan-ta città: l’espressione di malcontento più
vasta da quando Erdoğan è andato al pote-re nel 2002. È stata, nel senso più letterale
del termine, una rivoluzione “verde”, sca-tenata  dall’attacco  sferrato  dal  governo
all’ultimo spazio verde nel centro di Istan-bul. Ma quando la polizia è intervenuta con
tutta la sua forza, l’iniziativa si è trasforma-ta in una critica severa degli impulsi autori-tari di Erdoğan e della sua aspirazione a
trasformare la città in un’attrazione turisti-ca neo-ottomana, eliminando i quartieri
poveri e gestendo in modo sconsiderato gli
spazi pubblici come piazza Taksim.
Questa evoluzione (da una protesta am-bientalista di scala ridotta a una sida a tut-to tondo all’autorità del governo) si ritrova
in altre proteste popolari degli ultimi anni.
Nell’ottobre del 2012, in Cina, gli studenti e
i cittadini della classe media si sono uniti
alla protesta degli agricoltori poveri contro
la costruzione di uno stabilimento petrol-chimico da 8,8 miliardi di dollari a Ningbo,
una città con 3,4 milioni di abitanti a sud di
Shanghai. In un paese dove l’inquinamento
ha raggiunto livelli quasi impossibili, que-ste proteste sono state causate dal timore
che l’impianto producesse paraxilene, una
sostanza tossica impiegata nella fabbrica-zione di plastica, vernici e solventi.
Anche in questo caso la scintilla che ha
fatto scoppiare le proteste era minuscola. Il
22 ottobre 2012 un paio di centinaia di agri-coltori ha bloccato una strada nel tentativo
di  impedire  la  costruzione  dello  stabili-mento. Quando la polizia è stata inviata a
disperdere la folla, gli studenti della vicina
università si sono uniti alla protesta. Scri-vendo sui social network, i manifestanti
hanno  ottenuto  il  sostegno  dei  cittadini
della classe media, che si sono radunati a
migliaia nel centro della città. Quando le
truppe antisommossa sono intervenute per
sgomberare l’assembramento, i manife-stanti hanno risposto all’attacco avventan-dosi contro le auto della polizia e lanciando
mattoni e bottiglie d’acqua. Alla ine le for-ze dell’ordine hanno avuto la meglio dopo
giorni di scontri violenti, ma il governo ci-nese ha capito che quell’iniziativa popola-re, avvenuta nel cuore di una città impor-tante e voluta da un’alleanza di studenti,
agricoltori e giovani professionisti, era un
pericolo eccessivo. Dopo cinque giorni di
contrapposizione il governo ha ceduto, riti-rando il progetto dell’impianto petrolchi-mico.
Le manifestazioni di Ningbo non sono
state le prime di questo tipo in Cina. Tutta-via hanno messo in luce la crescente vul-nerabilità del governo di fronte alle prote-ste ambientaliste di massa. Da decenni il
Partito comunista cinese giustiica il suo
monopolio del potere con il successo otte-nuto nel garantire una rapida crescita eco-nomica. Ma questo sviluppo comporta un
uso sempre maggiore di combustibili fos-sili e prodotti petrolchimici, che a sua volta
produce  un  aumento  delle  emissioni  di
anidride carbonica e un disastroso inqui-namento atmosferico. Fino a poco tempo
fa  i  cinesi  sembravano  accettare  queste
condizioni come effetti inevitabili della
crescita, ma a quanto pare la tolleranza nei
confronti del degrado ambientale si sta ri-ducendo  rapidamente.  Di  conseguenza
Pechino si trova davanti a un dilemma: può
rallentare lo sviluppo per decontaminare
l’ambiente, ma con il rischio di un progres-sivo malcontento economico, oppure può
continuare con la crescita a ogni costo ed
essere travolto da un vortice di proteste co-me quella di Ning bo.
Germania e Giappone
Questo dilemma è al centro di rivolte simi-li scoppiate in altri luoghi del pianeta. Due
casi, uno in Germania e l’altro in Giappone,
sono legati all’incidente nucleare di Fuku-shima dell’11 marzo 2011, causato dal vio-lento tsunami che aveva colpito il nord del
Giappone.  In  entrambi  i  casi  sono  stati
messi in discussione il futuro dell’energia
nucleare e i governi in carica.
Le azioni più imponenti si sono svolte in
Germania. Il 26 marzo 2011, 250mila per-sone hanno partecipato alle manifestazioni
contro il nucleare in tutto il paese: centomi-la a Berlino e quarantamila ad Amburgo,
Monaco e Colonia. “Le manifestazioni di
oggi sono il preludio di un nuovo e forte
movimento antinucleare”, ha detto Jochen
Stay,  uno  dei  promotori  dell’iniziativa.
“Non ci fermeremo inché le centrali non
saranno messe sotto naftalina”.
In  gioco  c’era  il  destino  delle  ultime
centrali nucleari attive in Germania. Anche
se viene spacciata come alternativa inte-ressante ai combustibili fossili, l’energia atomica è considerata pericolosa da molti
tedeschi. Alcuni mesi prima dell’incidente
di Fukushima la cancelliera Angela Merkel
aveva insistito per tenere in funzione ino al
2040 i diciassette reattori ancora in attività
nel paese, attuando una transizione gra-duale alle energie rinnovabili. Subito dopo
l’incidente di Fukushima, però, Merkel ha
ordinato la chiusura temporanea dei sette
reattori più vecchi per fare delle ispezioni
di sicurezza, ma non ha voluto spegnere gli
altri. In questo modo ha provocato un’on-data di proteste, di fronte alle quali, com-plice anche una sconitta elettorale nell’im-portante land del Baden-Württemberg, la
cancelliera è arrivata alla conclusione che
impuntarsi sarebbe stato un suicidio politi-co. Il 30 maggio ha annunciato che i sette
reattori  sotto  ispezione  sarebbero  stati
chiusi deinitivamente e che gli altri dieci
sarebbero stati disattivati entro il 2022.
Nessuno nega che la decisione di sba-razzarsi gradualmente dell’energia nucle-are con quasi vent’anni d’anticipo si riper-cuoterà in modo signiicativo sull’econo-mia tedesca. Secondo le stime, la chiusura
dei reattori e la loro sostituzione con l’ener-gia eolica e solare costerà 735 miliardi di
dollari e richiederà diversi decenni, provo-cando un’impennata delle tarife elettri-che, oltre a crisi energetiche periodiche.
Tuttavia, l’ostilità al nucleare in Germania
è così forte che Merkel ha ritenuto di non
avere altra scelta se non quella di disattiva-re comunque i reattori.
In Giappone le proteste contro il nucle-are sono cominciate molto dopo, ma non
sono state meno rilevanti. Il 16 luglio 2012,
sedici mesi dopo la catastrofe di Fukushi-ma, 170mila persone hanno protestato a
Tokyo contro il piano del governo di rimet-tere in funzione i reattori nucleari, bloccati
dopo l’incidente. Oltre a essere stata la ma-nifestazione antinucleare più imponente
organizzata in Giappone da anni, si è tratta-to anche della protesta più imponente nella
storia recente del paese.
Per il governo l’iniziativa del 16 luglio
ha rivestito un rilievo particolare. Prima di
Fukushima la maggioranza dei giapponesi
era favorevole all’energia nucleare e coni-dava nella capacità dello stato di garantirne
la sicurezza. Dopo l’incidente e i disastrosi
tentativi di afrontare la situazione com-piuti  dalla  proprietaria  dell’impianto,  la
Tokyo Electric Power Company (Tepco), il
sostegno dell’opinione pubblica all’energia
atomica ha toccato i minimi storici. Quan-do è diventato sempre più chiaro che il go-verno aveva gestito la crisi in modo inade-guato, la popolazione ha perso la iducia
nella sua capacità di esercitare un controllo
eicace sul settore nucleare. Le ripetute
promesse sulla possibilità di mettere in si-curezza i reattori hanno perso credibilità
quando si è scoperto che alcuni funzionari
pubblici avevano collaborato a lungo con i
dirigenti della Tepco per liquidare le preoc-cupazioni sulla sicurezza di Fukushima e,
in seguito all’incidente, per tenere segrete
le informazioni sulla vera portata della ca-tastrofe e delle sue conseguenze per la sa-lute umana.
La manifestazione del 16 luglio e altre
iniziative simili dovrebbero essere lette co-me un voto pubblico di siducia nei con-fronti della politica energetica e delle capa-cità di supervisione dello stato.
“Finora i giapponesi non si sono
espressi contro il governo nazio-nale”, ha afermato una manife-stante, una casalinga di 29 anni
scesa in piazza con il iglio di un
anno. “Ora dobbiamo far sentire la nostra
voce, altrimenti il governo ci metterà tutti
in pericolo”.
Lo scetticismo nei confronti dello stato,
un fenomeno raro nel Giappone del ventu-nesimo secolo, ha ostacolato in modo con-sistente il progetto del governo di riattivare
i  cinquanta  reattori  chiusi  temporanea-mente  in  tutto  il  paese.  Anche  se  molti
giapponesi sono contrari all’energia nucle-are, il primo ministro Shinzō Abe resta de-ciso a rimettere in funzione le centrali per
ridurre la forte dipendenza del Giappone
dall’importazione di energia elettrica e per
promuovere  la  crescita  economica.  “In
questa fase”, ha dichiarato il premier a ot-tobre, “mi sembra impossibile promettere
l’eliminazione delle centrali nucleari. Dal
punto di vista del governo, le centrali ato-miche sono molto importanti per stabiliz-zare la produzione di elettricità e le attività
economiche”. Ma, nonostante questa posi-zione, Abe sta facendo molta fatica a otte-nere il sostegno per i suoi piani ed è lecito
dubitare che un numero consistente di quei
reattori sarà ricollegato presto alla rete elet-trica.
Perdere il potere
Da questi episodi si può dedurre che in tut-to il mondo i cittadini sono sempre più pre-occupati per la politica energetica e per le
sue conseguenze, e sono pronti, spesso con
un preavviso minimo, a partecipare a pro-teste di massa. Allo stesso tempo i governi
di tutto il pianeta restano fedeli,
con rare eccezioni, alla politica
energetica già deinita. Questo li
trasforma quasi invariabilmente
in bersagli, a prescindere dal mo-tivo iniziale che ha dato impulso
al movimento d’opposizione. Man mano
che le conseguenze del cambiamento cli-matico diventano più devastanti, i funzio-nari pubblici si troveranno costretti a sce-gliere tra i progetti energetici già decisi in
passato e la possibilità di perdere il potere.
Dato che solo pochi paesi sono pronti a
realizzare le misure che permetterebbero
di cominciare ad afrontare il pericolo del
cambiamento climatico, i governi saranno
considerati sempre più spesso degli ostaco-li a un cambiamento sostanziale e quindi
degli elementi da eliminare. Insomma, la
ribellione ambientalista (una serie di pro-teste  spontanee  che  potrebbero  trasfor-marsi in qualunque istante in movimenti di
massa inarrestabili) è alle porte. Di fronte a
queste rivolte, i governi reagiranno in parte
accogliendo le rivendicazioni popolari e in
parte con una dura repressione.
Questi  sviluppi  metteranno  a  rischio
molti governi, ma a quanto pare i più vulne-rabili saranno i vertici cinesi. Per garantirsi
un futuro, il partito che governa la Repub-blica Popolare Cinese ha puntato su un pro-gramma di crescita continua, alimentata
dai combustibili fossili, che sta distruggen-do progressivamente l’ambiente. La Cina
ha già assistito a cinque o sei sollevamenti
ambientalisti come quello di Ningbo, e lo
stato ha reagito cedendo alle richieste dei
manifestanti oppure usando la forza. La
questione è quanto si possa continuare ad
andare avanti in questo modo.
Le condizioni dell’ambiente sono desti-nate a peggiorare, soprattutto se la Cina
continuerà a usare il carbone per il riscal-damento delle case e per la produzione di
energia elettrica. Eppure, nessun segnale   lascia pensare che il Partito comunista sia
pronto a compiere i drastici passi necessari
per ottenere una riduzione consistente del
consumo domestico di carbone. Data la si-tuazione, è possibile che in qualunque mo-mento in Cina scoppino proteste popolari
di portata potenzialmente senza preceden-ti. A loro volta, queste manifestazioni po-trebbero mettere in discussione l’esistenza
stessa del partito: uno scenario che di certo
produce un’ansia enorme tra gli alti diri-genti di Pechino.
Contro il fracking
E che dire degli Stati Uniti? Sarebbe ridico-lo afermare che a causa dei disordini i ver-tici politici del paese rischiano di essere
spazzati via o di essere costretti a passare
seriamente all’azione per ridimensionare
la dipendenza dai combustibili fossili. Tut-tavia, anche negli Stati Uniti si osservano
segni di una crescente opposizione popola-re ad alcuni aspetti dell’uso di queste fonti
energetiche, come le accese proteste con-tro la tecnica di estrazione del fracking e
contro l’oleodotto per le sabbie bituminose
Keystone Xl. Secondo lo scrittore e militan-te ambientalista Bill McKibben, tutti questi
elementi sono gli indizi che sta nascendo
un movimento di massa contro il consumo
di combustibili fossili. “Negli ultimi anni”,
ha scritto McKibben, questo movimento
“ha  bloccato  l’edificazione  di  decine  di
centrali elettriche a carbone, si è battuto
contro il piano dell’industria petrolifera di
costruire l’oleodotto Keystone Xl, ha con-vinto un gran numero di istituzioni statuni-tensi a disfarsi dei titoli legati alle aziende
dei  combustibili  fossili  e  ha  contrastato
progetti come lo spianamento delle vette
montuose  per  l’estrazione  di  carbone  e
l’impiego del fracking per la produzione di
gas  naturale”.  Queste  campagne  non
avranno ancora ottenuto lo stesso successo
del movimento per il matrimonio gay, ha
osservato l’attivista, ma “stanno crescendo
in fretta e cominciano a conseguire alcune
vittorie”.
Anche se è troppo presto per fare previ-sioni sul futuro di questo movimento con-tro l’emissione di anidride carbonica, sem-bra però che le proteste stiano acquistando
forza. Alle elezioni del 2013, per esempio,
Boulder, Fort Collins e Lafayette (tre città
del Colorado, uno stato ricco di fonti ener-getiche) hanno votato per mettere al bando
o stabilire una moratoria sul fracking nel
loro territorio, e intanto le proteste contro
il Keystone Xl e altri progetti simili si stan-no intensiicando. Nessuno può dire con
certezza se la rivoluzione per l’energia pu-lita ci sarà, ma chi può negare che le prote-ste ambientaliste incentrate sulla questio-ne energetica negli Stati Uniti e in altri pa-esi  possano  trasformarsi  in  qualcosa  di
molto più grande? Come la Cina, nei pros-simi anni anche gli Stati Uniti subiranno
gravi danni a causa del mutamento clima-tico  e  del  loro  incrollabile  legame  con  i
combustibili fossili.
Gli statunitensi non sono in genere per-sone passive. Aspettiamoci che, come i ci-nesi, anche loro reagiscano a questi perico-li con collera crescente e con una forte de-terminazione  a  cambiare  la  politica  del
governo. Quindi non sorprendiamoci se la
rivoluzione per l’energia pulita scoppierà
nel nostro quartiere: è la reazione dell’uma-nità al rischio più grave che abbiamo mai
dovuto afrontare. Se i governi non passe-ranno all’azione per salvare il pianeta, qual-cun altro ci penserà. u fp
L’AUTORE
Michael T. Klare insegna studi sulla pace
e sulla sicurezza mondiale all’Hampshire
college. Il suo ultimo libro uscito in Italia è
Potenze emergenti. Come l’energia ridisegna
gli equilibri politici mondiali (Edizioni
Ambiente 2010)

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